
Da quando la storia di Stefano Cucchi ha travolto i media nazionali, ho cercato in ogni modo di non guardare le fotografie che ne ritraevano il corpo: avrebbero reso più vera quell’ingiustizia che, a leggerla, poteva sembrare così lontana. Quando ho trovato il coraggio, mi ha colto il senso di impotenza che provai quando anni fa, per motivi di studio, scorsi le foto del corpo di Pasolini, martoriato come quello di Stefano: un uomo ridotto a sacco della spazzatura, a stento riconoscibile, con la magrezza dei cani abbandonati per strada. In questo sovrapporsi di immagini, la consapevolezza che l’ingiustizia non è lontana, ma vicinissima, passa sulla nostra pelle, quella di tutti.
Sono da poco passate le undici di sera del 15 ottobre 2009, un giovedì come tanti altri. Stefano Cucchi ha 31 anni e lavora come ragioniere nello studio del padre. Arrivato nella periferia sud-est di Roma per incontrare un amico, Stefano viene fermato dai carabinieri che lo perquisiscono: addosso gli vengono trovati una ventina di grammi di hashish, due dosi di cocaina e due pasticche scambiate per ecstasy. In realtà è un medicinale, il Rivotril, utilizzato per la cura dell’epilessia. A quel punto gli agenti lo arrestano e procedono alla perquisizione dell’abitazione in cui Stefano dichiara di essere residente, quella dei genitori. La convinzione è che lì vi sia nascosta altra droga, che invece non troveranno. Ha precedenti penali, non legati alla droga però. All’udienza di convalida dell’arresto, il giorno successivo, gli viene affidato un avvocato d’ufficio, la sua richiesta di vedere il legale di famiglia è caduta nel vuoto. Sul volto, Stefano ha grossi lividi nella zona degli occhi e della mascella e, come si scoprirà dopo la prima visita medica, anche sulla schiena. Fa fatica a muoversi, gli fa male tutto, dice di essere caduto dalle scale. Eppure le ferite non corrispondono.
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