
Dopo aver lanciato la seconda molotov nella notte dei moti di Stonewall del 1969, Sylvia Rivera, attivista transgender, ricorda di aver intonato insieme alla folla la canzone”We Shall Overcome”, che anni prima era diventata l’inno dei sindacati afroamericani nel sud degli Stati Uniti e dell’attivismo per i diritti civili. Insieme alla melodia, ricorda però anche la rabbia di scoprire la propria comunità tagliata sempre fuori dalle vittorie delle associazioni gay, come il Gay Liberation Front e laGay Activist’s Alliance, il cui approccio rifletteva una prospettiva unicamente borghese e mancava di includere nelle proprie battaglie la richiesta di diritti per le persone transgender, non bianche e meno abbienti. “Bisognava aderire allo standard degli ‘omosessuali normali’, così lo definivano”, ha raccontato Rivera nel 2001 in un intervento al Lesbian and Gay Community Services Centerdi New York. “Alla prima manifestazione per il Gay Rights Bill, gli uomini indossavano giacca e cravatta e le lesbiche, anche chi non l’aveva mai fatto, abiti da signora e tacchi alti, per dimostrare al mondo che erano normali. Io non voglio andare al lavoro vestita da uomo se so di non esserlo”.
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